Perfetti sconosciuti
Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta. Un tempo quella segreta era ben protetta nell'archivio nella nostra memoria, oggi nelle nostre sim. Cosa succederebbe se quella minuscola schedina si mettesse a parlare? Perfetti sconosciuti è un film dove tutto è il contrario di tutto, dove ognuno può raccontare la sua esperienza, può fissare dei confini tra cose giuste e sbagliate, corrette e scorrette, disdicevoli o no, parlando di vite segrete, di quello che non possiamo o non vogliamo raccontare. Nel corso di una cena, che riunisce un gruppo di amici, la padrona di casa Eva, ad un certo punto, si dice convinta che tante coppie si lascerebbero se ogni rispettivo partner controllasse il contenuto del cellulare dell'altro. Parte così una sorta di gioco per cui tutti dovranno mettere il proprio telefono sul tavolo e accettare di leggere sms/chat o ascoltare telefonate pubblicamente. Quello che all'inizio sembra un passatempo innocente diventerà man mano un gioco al massacro e si scoprirà che non sempre conosciamo le persone così bene come pensiamo.
GENERE: Commedia
REGIA: Paolo Genovese
ATTORI: Kasia Smutniak, Marco Giallini,Valerio Mastandrea, Anna Foglietta,Giuseppe Battiston, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher
DURATA: 97 Min
NOTE:Canzone originale "Perfetti sconosciuti" di Fiorella Mannoia (F.Mannoia, Bungaro, C.Chiodo)
CRITICA: Una "cena delle beffe" che guarda all'attualità e vanta una scrittura precisa, disincantata e comica al punto giusto.
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell'altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l'utilizzo "ludico" dei nuovi "facilitatori di comunicazione" - chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social - a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I "perfetti sconosciuti" di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c'è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell'altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l'allargarsi dei cerchi nell'acqua di questi "giochi" finisca per rivelare la "frangibilità" di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l'intervento importante degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti tratti dal reale.
Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa).
Il tono è adeguato alla narrazione: non melodrammatico (alla L'ultimo bacio), non romanticamente nostalgico (alla Il nome del figlio), non farsesco, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa "cena delle beffe" attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C'è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il "gioco" (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l'ipocrisia e l'accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri "frangibili".
Quello che ancora manca, a ben guardare, è quella profondità abissale, quella vertigine di consapevolezza regalata agli spettatori senza preavviso dal miglior cinema italiano, su tutti quello di Ettore Scola (non a caso anche qui c'è una terrazza). Ma questa non è colpa degli sceneggiatori o del regista, è segno dei tempi, giacchè la "frangibilità" delle identità e dei rapporti consente al massimo la rivelazione di qualche doppiofondo, non quella sospensione sull'orlo dell'abisso che, come canta il bardo della nostra epoca inconsistente, "non è paura di cadere ma voglia di volare". TORNA a Rivergaro cinema sotto le stelle 2016